E l'approvazione di lei, che sentiva d'aver meritata, lo compensò delle privazioni sofferte, assai più che la vanità d'aver ricambiato l'invito.
C'erano delle epoche in cui la sua povertà gli riesciva penosa di molto. Una era il carnevale, e specialmente la fine, l'ultima settimana. Tutto il giorno, fra i suoi compagni di studio, era un continuo ciarlare di serate godute e da godere; un discorrere sconclusionato, a sbalzi, con delle allusioni che Giovanni capiva alla sua maniera e che lo eccitavano: «Quale preferivi ieri sera? La bionda? Non sei di cattivo gusto. Che carnagione! E che abbigliatura! Quella ne spende de' quattrini! Brrr!».
Giovanni si metteva a scrivere in fretta, faceva scricchiolare la penna per assordarsi; ma quelle parole s'insinuavano tra le frasi legali che andava stendendo sulla carta, gli empivano la fantasia di visioni, di desideri, di curiosità acute. Era impaziente d'uscire di là per distrarsi da quelle idee; ma quando ne usciva era peggio: le strade erano affollate di gente rumorosa, allegra, ben pasciuta; pareva che la città fosse piena di denaro; i più umili operai ne spendevano e si davano bel tempo. C'era un formicolio di piccoli industriali e commercianti vagabondi, che andavano vendendo stampe, caricature, bosinate, fiori di carta, coccarde, medaglie, e decorazioni burlesche del Carnevalone; a Giovanni però non offrivano la loro mercanzia; lo guardavano con un ghigno ironico, come se dicessero: «Costui è a secco».
I negozi di comestibili avevano delle mostre tentatrici; le oche grasse, i polli grossi e bianchi protendevano i loro ventri enormi accanto alle aragoste melanconiche, che movevano tratto tratto una zampa colla languidezza della loro vita agonizzante.
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Giovanni Carnevalone Giovanni
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