«Io pranzo alla locanda e qui non ho nulla da darti. Ti farò accompagnare ad un albergo qui accanto, dove ti daranno da mangiare, ed anche da dormire. Potrai fermarti due, tre giorni, fin che vorrai. Sono buona gente. Le ragazze ti condurranno fuori a vedere Milano».
La Matta non si moveva. S'era tirata giù la pezzuola fin sulla fronte, e rimaneva muta colla testa bassa.
«Non vuoi venire? Che cosa vuoi fare?» domandò Giovanni con un lieve tono d'impazienza.
Lei sentì che doveva rispondere, e facendo uno sforzo sovrumano balbettò: «Io non so».
Egli era avvezzo a quella parola inconsapevole della povera scema, ma in quel momento, vedendo che rifiutava di andare a mangiare e dormire, mentre doveva averne tanto bisogno, pensò che forse le mancava il denaro, ed aprendo il cassetto della scrivania, ne trasse un biglietto da cento lire, e glielo mise in mano dicendole: «Prendi. Questo è per te. Ti pagherai le spese all'albergo, ed il viaggio quando vorrai tornare al paese. Ed in ogni occorrenza che tu abbia bisogno, fammi scrivere, perché sei sempre stata buona e non ti abbandonerò».
Era una sentenza definitiva. Non voleva tenerla con sé. Era finita, non c'era più speranza. Il lungo sogno della sua povera vita svaniva, il suo grande amore da schiava era respinto dal padrone. In quella immensa rovina parve alla Matta che il mondo crollasse intorno a lei, che la spingessero sola in un immenso deserto. Le venne in mente l'asino del mugnaio che girava sempre sempre intorno ad un palo per far girare la macina, e, quand'era vecchio e non girava più, lo conducevano a Borgomanero e lo vendevano per poche lire.
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