Non per convenienza, non per vegliare alla felicità di Giorgio, ma per me, per la mia propria felicità io mi sentivo attratto verso quella strana giovane; il suo sguardo, la sua voce, la lealtà del suo cuore avevano gettato nel mio i germi dell'amore. Lo sentivo nascere in me, ed un terrore inconscio mi avvertiva di fuggirla. Tuttavia questa risoluzione non era ben determinata, e mentre andavo vagando dalla Galleria al caffè Martini, e di là ai Giardini pubblici, trovando le ore lunghe ed il giorno eterno, non volendo più tornare all'Albergo Milano, dicevo fra me:
Che mi dirà quando la rivedrò? Si lagnerà della mia assenza?
E continuavo a ripetere queste parole:
Quanto tempo che non vi vedo, Max!
e studiavo in esse l'intonazione della sua voce. Dove e quando mi avrebbe salutato così, dacchè non dovevo più vederla?
Non ne sapevo nulla, ma udivo quelle parole, e mi scendevano al cuore; e le ripetevo con tale insistenza che ne ero sbalordito, ed il capo mi pesava come dopo un'emicrania.
Il giorno seguente, alle undici del mattino, stavo in piedi al caffè Martini dalla parte di via Manzoni. Il mio famoso: "Quanto tempo che non vi vedo, Max!" cominciava a farsi scolorito, e, malgrado tutti gli sforzi della mia immaginazione, non mi riesciva più di riprodurre, nel pronunciare quella frase, l'impressione di dolcezza che mi aveva fatta provare il giorno innanzi. Avevo vegliato tutta notte su quel pensiero. Lo avevo completamente esaurito, e con esso la mia energia, l'immaginazione, e la potenza d'amare.
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