Con questa sola differenza che, dissuggellando quel piego andavo chiedendo tra me: "Scrive bene?" Ed era il solo pensiero che mi occupasse in quel momento.
XVI.
LE MEMORIE DI FULVIA.
Caro Max,
La mia nascita, la mia infanzia, la mia adolescenza non hanno nulla di romantico. - Me ne duole, per l'effetto di queste mie pagine, ma è così.
Il mio babbo era impiegato governativo, ed era povero. La mia mamma morì pochi anni dopo la mia nascita. Non avevo fratelli. In casa mia si viveva meschinamente, con una sola serva che aveva cura di me.
Quando ebbi dodici anni, il babbo mi pose in collegio, dove rimasi sette anni. La pensione era dispendiosa. Egli licenziò la serva, vendette il mobiglio, e si pose a vivere a dozzina per fare economia.
Ed infatti riescì a mantenermi tutto quel tempo in collegio, senza farmi sentire la menoma privazione, senza farmi sfigurare presso le compagne; e, dal canto suo, non fece mai l'ombra d'un debito. Forse le privazioni, povero babbo, le imponeva a sè stesso; ed il mio benessere era il frutto de' suoi sacrifici.
Ma fin allora non m'ero mai imbattuta a pensare quale potesse essere la condizione economica di mio padre. Accettavo la mia, e la godevo colla spensieratezza della mia età.
Parecchie delle mie compagne imparavano il canto. Io vi aspiravo vivamente. Amavo la musica con trasporto, ed ero ambiziosa. Pregai la direttrice che mi facesse provare la voce. Il maestro trovò che era buona. Allora, senza pensare all'aumento di spesa che gl'imponevo, scrissi al babbo quel mio desiderio.
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Max
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