Ella pensava alla sua partenza ed era triste.
Quando fummo a casa ci sedemmo come al solito ai due lati della tavola. Ma il vino bevuto mi era salito al capo; e senza esserne ancora precisamente esaltato, ne avevo le idee intorpidite e l'occhio stanco. Non sapevo più parlare. Ogni volta che aprivo la bocca dicevo:
- Mi amate, Fulvia?
La prima volta mi rispose con espansione: "Sì, mi amava, e malgrado che non potessi essere che un amico per lei, sentiva che nessuno le era più caro di me, neppure Welfard." E mi stringeva la mano, e mi guardava quasi aspettando ch'io le dicessi parole altrettanto affettuose.
Io volli farlo, apersi la bocca e dissi:
- Mi amate, Fulvia?
Questa volta ella mi rispose soltanto:
- Perchè lo domandate? Non lo sapete abbastanza?
Ed io pensai che infatti lo sapevo, che ne ero certo; e che ero soltanto molto infelice del suo impegno con quel soldatino di piombo, e della sua partenza. E volli esprimerle tutto ciò; e la fissai languidamente e le dissi:
- Mi amate, Fulvia?
Ella mi guardò meravigliata, e mi strinse la mano senza rispondermi. Aveva ragione di non rispondermi. Ero sciocco; non sapevo dir altro; cominciavo ad accorgermi d'essere monotono. Pensai tante buone cose da dirle; sognai di seguirla a Reggio, di vederla andare in iscena, e poi di proporle di fuggire con me in un piccolo casino svizzero lontano lontano, che mi pareva di vedere, e che era fatto come una pagoda chinese. E poi eravamo già fuggiti. Eravamo già là insieme nella pagoda, seduti in terra colle gambe incrociate bevendo il thè, ed io le domandavo con trasporto:
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Fulvia Welfard Fulvia Fulvia Reggio
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