L'idea di scindere il mio impegno con Gualfardo, nè di fargli il menomo torto, non entrava nel mio cuore. E se la mia coscienza delicata mi rimproverava di sentire troppo vivamente la superiorità di Max, di pensare con troppa dolcezza con che impeto egli mi amava, e con che nobile slancio mi aveva offerto di farmi sua, tosto mi trovavo giustificata dal pensiero di aver respinto quella proposta che era per me tutto un avvenire di felicità. Avevo fatto il mio dovere; che si poteva pretendere di più?
Giunsi a Reggio a tarda sera. La mattina seguente, appena alzata, mandai a prevenire l'impresario del mio arrivo. Alle undici egli arrivava da me. Dovevo andar in iscena fra sei giorni. Concertammo tutto per le prove al pianoforte e le prove d'orchestra, ed a misura ch'egli mi fissava le ore che dovevo consacrare al teatro, io compulsavo quante me ne rimarrebbero da dedicare a Max.
Quando l'impresario mi lasciò, l'omnibus dell'albergo usciva dal cortile per andar a prendere i viaggiatori allo scalo. Mancavano cinque minuti all'arrivo del traino. Rimasi alla finestra da cui non vedevo che il cortile, ed alcuni staffieri che pulivano delle carrozze. Il cuore mi batteva così forte, che sentivo di comprimerlo stando appoggiata al davanzale; e pensavo come mai quegli staffieri potessero occuparsi di quelle carrozze, e quei forestieri, che vedevo per entro la finestra della sala terrena, potessero mangiare tranquillamente, col cuore sussultante a quel modo. Mi pareva che tutti i cuori dovessero sussultare.
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