S'è molto scritto sul senso di divinazione dell'amore che ci fa riconoscere il noto passo della persona amata; ma in realtà codesto si riduce ad una questione di scarpe. Quelle di Massimo scricchiolavano quand'ero a Milano. Supposto che le avesse cambiate, addio noto passo; non l'avrei riconosciuto più. Intanto scricchiolavano tutte le scarpe dei servitori, e, se non ne presi un aneurisma, è un fenonemo da notare negli annali della medicina.
Passò il mezzogiorno, ed un'ora, e le due, ed ero sempre sola. Non c'era pensiero desolante che non mi venisse in mente.
Max era innamorato d'un'altra e non pensava più a me. O aveva rinnovata la sua relazione colla marchesa Vittoria, e stava a Monza nella villa di lei, e non aveva nemmanco idea della mia lettera e del mio arrivo. O la lettera l'aveva ricevuta, sì; ma giudicava la mia condotta severamente; come meritava. Gli sembravo un'avventuriera, una donna senza decoro ad andarmene così di città in città per dare appuntamento ad un giovinotto in una camera d'albergo. E non si degnava neppure dì venire a porgermi la mano. Era un rimprovero, una lezione.
E quest'idea era la più insistente, la più terribile. Mi pareva di vedermi dinanzi la bella figura tanto dignitosa di Gualfardo, fissarmi con uno sguardo di sprezzo, che mi trafiggeva il cuore.
XXIV.
Alle tre, non reggendo più a quell'immobilità angosciosa, uscii, traversai la galleria senza nemmanco pensare che mi si potrebbe riconoscere, andai in duomo, m'inginocchiai dietro il coro, ed in quella penembra solenne, piansi amaramente.
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