Per la prima volta pensai a lungo senza raccapriccio alla morte. Quel primo novissimo di cui non è dato dubitare, mi pareva in quel momento la cosa più desiderabile che rimanesse per me in questo mondo. La mia agitazione era così grande, che nulla dovea sedurmi più di quella tranquillità assoluta e secura. Pensavo che i morti dovevano gustare una pace deliziosa adagiati nelle loro casse, dove non vi sono fidanzati da ingannare, nè amanti da attendere, nè alberghi per ospitare un errore.
Avrei voluto partir subito; correre a Torino. Ma avevo scritto che giungerei sabato colla contralto. Che cosa penserebbero il babbo e Gualfardo a vedermi arrivare il giovedì, e sola? Eppure, in tanta noia ed in tanto cruccio, non andavo a cercar consiglio dalla contralto. L'idea di vederla trattar leggermente quell'agonia della mia coscienza mi faceva male. Comprendevo omai tutta la gravità del mio passo, e qualunque fosse il giudizio indulgente di lei, sentivo che non potrebbe modificare il mio. Nell'uscire scontrai un prete nella navata; e desiderai d'esser quel prete. Poi vidi un vecchio cieco che vendeva amuleti e coroncine; e desiderai d'esser quel cieco. E pensavo. Ecco due uomini che non hanno amori, e non sentono rimorsi, e sono felici. In quello stato d'animo non credevo ad altre passioni nè ad altri errori, nè ad altre miserie.
Nel traversare la Piazza del Duomo per tornare a casa mi trovai in faccia a Giorgio.
Se fossi stata più devota l'avrei creduta una grazia concessa dal cielo alla mia preghiera.
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