Precisamente come avevo fatto con Max. Forse che pensavo di fare a Gualfardo la cronaca di quelle galanterie? Nemmeno per ombra. E perchè dovrei farmi un dovere di narrargli la mia relazione con Max? Perchè gli altri li avevo respinti senza soffrirne, e Massimo lo avevo ricusato con dolore? Ma questo non era che un merito di più.
Poi vennero le penombre della sera. Non vidi più la gente in istrada. Non vidi più nulla intorno a me; ed allora guardai nella mia coscienza.
E vidi che tutto ciò era sofisma per ischermirmi da un dovere penoso. Vidi che la mia colpa non stava nel sentimento involontario ch'io provavo per Max, ma nelle piccole ipocrisie d'amicizia con cui lo alimentavo; in quella specie di compromesso col mio dovere, con cui cercavo di ricusare il suo amore, e di serbarlo vivo al tempo stesso; di mantenermi in dolci rapporti con lui, senza spezzare il mio vincolo con Gualfardo, che per una cara abitudine si era immedesimato colla mia esistenza; e da cui non avevo il coraggio di sciogliermi.
In realtà io non desideravo di sposar Max. Egli aveva un grande ingegno, una posizione agiata, un avvenire largo di promesse, una salute fiorente, una maschia bellezza, e tutte quelle attrattive di parola, di voce, di modi, di eleganti cognizioni, che guadagnano tutte le simpatie, che aprono tutte le porte.
Un uomo così, nel matrimonio ha tutto a dare, nulla a ricevere. Per farmi sua moglie avrebbe dovuto sacrificarmi la sua libertà. Farmi vivere colle sue rendite ed i suoi guadagni, perchè la sua carriera legale sarebbe stata inconciliabile colla vita girovaga di un'artista.
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