Poi terminato quel doloroso compito se ne andò, e non lo rividi più.
Ero in una specie d'apatia. L'isolamento pesava su me, mi gelava il cuore. Non pensavo nulla. Mi sentivo sola e profondamente infelice.
Mi erano rimaste nella mente quelle ultime parole scritte da Gualfardo, che interpretavano pure l'ultima volontà del povero babbo:
Non uscite dalla vostra camera."
Mi pareva che non dovessi uscirne più; che dovessi passare il resto de' miei giorni solitaria ed inerte in quei dodici metri quadrati di spazio, per obbedire a due ordini egualmente sacri.
Non ricevevo nessuno. La serva mi recava continuamente delle lettere. Ne avevo aperte alcune sbadatamente e ci avevo trovato una carta da visita colle iniziali P. C. scritte a mano.
Quella formola per condoglianza, che ricorreva persino ad un'abbreviazione per sbrigarsi più presto da un dovere di società che non aveva nessun lato piacevole, mi parve uno scherno al mio dolore, mi irritò; e d'allora a misura che la serva mi recava quelle buste le gettavo sulla tavola senza aprirle.
Non so quanto tempo rimanessi così, muta, triste, isolata nella mia camera. Forse qualche settimana appena, forse pochi giorni. Ma nella mia memoria quel tempo occupa uno spazio grande, mi pare di esserci rimasta un anno.
Un giorno la serva entrò con una lettera. Io la presi e la gettai sulla tavola.
Ma no. Ella tornò a darmela. Bisognava che io la leggessi; l'aveva recata un signore, che stava aspettando la risposta.
- Chi è? domandai.
La serva non lo sapeva. Era già venuto due volte, ed essa non l'aveva introdotto, dicendogli che io non ricevevo ancora.
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Gualfardo
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