Oh mio Dio! Che era mai avvenuto di quella passione entusiasta che mi aveva indotta a sacrificare il nobile fidanzato che da tanto tempo mi amava, per acquistare il diritto di amare Max?
Ricordavo il mio trasporto di quella sera fatale in cui avevo preso la risoluzione d'accettare la scrittura per l'America, e di sciogliere il mio impegno con Welfard, per essere libera di scriver follie in un epistolario sentimentale con Max.
Stupido sogno da romanzo! Era svanito prima che avessi finito la mia confessione a Gualfardo. Ed omai, ripensando a quei due amori che s'erano disputato a lungo il mio cuore, ripetevo con amarezza un verso altre volte citatomi da Massimo: Il ben ch'è mio davvero, è il ben che sparve!
Presi le lettere di Max, belle, poetiche, eleganti, appassionate, strane, e mi posi a leggerle pensando:
Se potessi amarlo ancora! Chi può dire quanto possa sopra un cuore entusiasta l'ascendente dell'ingegno?
Mentre ero assorta così, la mia serva entrò in camera per portarmi il pranzo.
Al vedermi allo scrittoio con tante lettere intorno, si fermò alzando il capo ed aprendo la bocca nell'atto di chi si ricorda improvvisamente d'una cosa; poi disse:
- A proposito di lettere; ce ne sono molte, che sono venute quando lei non aveva mente ad occuparsene. Vuole che gliele porti?
Pensai da quanto tempo non avevo più scritto a Max; e che certo fra quelle lettere ce ne dovevano essere di sue; ed accettai di vedere quella corrispondenza arretrata.
Passai tutte quelle buste chiuse, cercai sugli indirizzi la brutta scrittura di Max.
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