Chi potrebbe dire che io vado a morire?
Eppure così è. Troverò un crepaccio che m'inghiotta, una valanga che mi travolga; ruinerò da un precipizio; mi getterò a capo fitto in una gola; dove sono tanti i pericoli, s'incontra la morte ad ogni passo; il suicidio è facile e segreto. Da quella gita non tornerò.
Ho domandato di Gualfardo; non è più a Torino. Dov'è? Non ne so nulla. Non lo vedrò mai più.
Ho preso meco le sue lettere; tutte le sue lettere, ed il suo ultimo biglietto che mi annunciava la morte del babbo. Quelle lettere che mi parevano tanto fredde, e che ora mi sono tanto care. Esse riscalderanno il mio povero cuore gelato tra le nevi del Monte Bianco.
Non imposterò queste carte per voi se non al momento di partire per la grande ascensione, da cui non tornerò più. Quando le riceverete avrò già cessato di vivere.
Cambiate i nomi, e poi pubblicate le mie memorie. Ma non questa lettera. Non tradite per ora il segreto della mia morte.
FULVIA.
XXXVIII.
Il piego delle memorie di Fulvia mi era giunto la mattina del 20 agosto. Ero nel mio studio. Lo apersi; ma appena mi accorsi che era cosa estranea agli affari, malgrado la viva curiosità che m'inspirava, lo misi da parte. Ero sovraccarico di lavoro; da otto giorni avevo molto trascurato il mio studio, per occuparmi quasi esclusivamente della mia camera nuziale, dove, dopo nove mesi e qualche giorno di matrimonio, un bel bambino faceva echeggiare in suono di pianto la sua voce robusta.
Era la prima gioia viva che avessi provata dopo il mio matrimonio.
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