Ma mi parve di oltraggiare la memoria di Fulvia, che aveva voluto circondare di tanto mistero la sua morte.
Qualunque sia l'impeto che ci spinge ad una corsa precipitosa, qualunque sia l'esito ed i sentimenti che ne riportiamo, si finisce sempre per tornare a casa.
Tra andare, venire, interrogare, almanaccare, piangere in segreto, disperarmi, ero stato fuori sette giorni.
La mattina dell'ottavo, triste, irritato, disgustato del mio passato e del mio presente, con un profondo tedio nell'anima, ripresi alla stazione di Porta Nuova il treno per Milano.
XXXIX.
Giunsi a Milano il 30 agosto a mezzodì, con un caldo soffocante, un sole infuocato.
Nello stato d'animo in cui mi trovavo non potevo sopportare il pensiero di accogliere il tranquillo benvenuto di mia moglie.
Avevo una chiave del mio studio, dove potevo entrare per una porta attigua a quella dell'alloggio. Mi rifugiai nel mio studio senza entrare in casa.
A quell'ora i commessi erano a colazione.
Sedetti allo scrittoio su cui erano disposte in ordine di data le lettere venute durante la mia assenza.
Tra quelle soprascritte non ne vidi che una. Una trammezzo a tutte, che era giunta tre giorni innanzi.
Una lettera di Fulvia!
Un freddo sudore m'imperlava la fronte in quell'ardente meriggio d'agosto.
Una lettera di Fulvia! Era viva; ricuperata dopo l'agonia di quei giorni in cui l'avevo creduta morta, ed avevo pensato a lei con tutto l'amore che giustifica la inviolabile solennità della tomba; era viva e mi scriveva.... Ed io era un buon uomo ammogliato con prole!
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