Ma la stranezza del luogo, il pericolo cui andavamo incontro, la mia stessa esaltazione che doveva esser vicina al delirio per avermi indotta a quel passo, giustificavano a' miei occhi la sua emozione.
Io soggiunsi, sempre nella bella lingua di Welfard che parlavo con amore perchè l'avevo imparata da lui:
- Quando si va incontro ad una salita pericolosa come quella a cui mi dispongo, bisogna prevedere tutto, anche il peggio. Potrebbe darsi che mi cogliesse una disgrazia, che non tornassi più. Non ci avevo pensato prima. Ho meco un piego che non mi appartiene. Vorreste farlo avere a Torino al Consolato Tedesco perchè lo mandi alla persona che deve riceverlo, e ch'io non so dove si trovi?
Così dicendo porgevo il prezioso piego.
- Non ha indirizzo; - osservò l'incognito; e la sua voce era così fioca e tremante, che pareva sul punto di svenire.
Quella faticosa salita lo aveva sfinito.
- Non ho meco una matita per scriverlo. Ma dirò l'indirizzo a voi, e voi lo metterete.
Ma all'atto di pronunciare così, davanti ad uno sconosciuto, quel nome tanto caro, di staccarmi da quelle lettere senza averle di mia mano dirette a lui, mille diffidenze mi sorsero in cuore; - ed esclamai:
- Oh se potessi scriverlo!
Lo straniero aperse il suo soprabito, trasse un portafogli, ne levò una matita e me la porse.
Quell'ultima esclamazione, quasi involontaria, m'era sfuggita in italiano. Non la rivolgevo a lui, ma a me stessa; non avevo cercato di farmi comprendere.
Come mai mi aveva compresa, egli che non conosceva l'italiano?
| |
Welfard Torino Consolato Tedesco
|