In tutt'altro momento questa contraddizione mi avrebbe colpita. Ma nell'esaltazione di quell'ora non ci pensai.
Presi quella matita e scrissi sul mio piego:
Welfard Herbert. Raccomandata al Consolato Tedesco in Italia.
Egli prese il piego senza parlare, e s'avviò per uscire dalla capanna. Io mi spaventai, e trattenendolo esclamai angosciosamente:
- Sul vostro onore....
- Sul mio onore, l'avrà; rispose con voce tremante; poi senza voltarsi uscì.
Allora, priva di quelle lettere che mi ero avvezza a stringermi sul cuore come un ricordo di lui, come parte del mio passato, mi sentii sola; sola in faccia alla morte. Ero seduta accanto alla tavola. Mi nascosi il volto tra le braccia, e piansi amaramente.
Rimasi a lungo così, immersa nel mio dolore.
Ad un tratto sentii prendermi alla vita e mi alzai spaventata.
Ma un braccio energico mi trattenne, mentre una voce ben nota, troppo nota, e profondamente commossa mi diceva:
- Fulvia, perdonatemi!
Era lo sconosciuto che aveva deposto il suo orribile passa-montagne; era Gualfardo.
Era Gualfardo inginocchiato accanto a me. Gli ultimi raggi del crepuscolo entrando per una stretta finestra segnavano una striscia nell'oscurità della capanna, e rischiaravano il suo volto. Vidi quei begli occhi che mi guardavano con infinito amore, ed erano pieni di lagrime.
- Welfard! mormorai. E mi strinsi al cuore la sua bella testa, e le nostre labbra si cercarono, e piangemmo insieme.
- Mia Fulvia; mia amante; mia sposa; susurrava Gualfardo stringendomi le mani. Dimmi che vivrai, che vivrai per amarmi; per esser mia; per non lasciarmi mai più.
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