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      Ed il primo atto di quel nucleo di gente inetta ed austriacante, che formò lì per lì una specie di governo, fu quello di mandare in tutta fretta come deputati ai generali austriaci, il conte Cammillo della Gherardesca, il marchese Antonio Corsi, l'avvocato Giuseppe Giunti e Carlo Pauer, per pregarli ad accelerare la marcia delle loro truppe su Firenze. Nel tempo stesso, si facevano premure all'armata aretina di venire a rimetter l'ordine, poiché gli eccessi dei "facinorosi avidi e audaci manomettevano le persone e le proprietà dei patriotti, in varie guise ingiuriate dalla plebaglia." Per conseguenza, non cessava di raccomandare al popolo con l'editto del 6 luglio, di cessare dagli arresti dei giacobini, non perché ciò era indegno di gente libera, ma "per non turbare con tali atti arbitrarii l'amatissimo sovrano," che avrebbe reso loro il dolce suo governo. E siccome il Senato prevedeva da un giorno all'altro il ritorno di Ferdinando III, così esortava tutti a non permettere che la gioia di tanta aspettativa "fosse mista con i mali sempre inseparabili dal disordine e dalla confusione."
      Il capitano Lorenzo Mari, già uffiziale dei dragoni di Ferdinando III, e capo dell'armata aretina, credendosi sul serio un altro Napoleone, da San Donato in collina, dov'era coi suoi prodi accampato, fece sapere all'improvvisato governo di Firenze che egli avrebbe dato una risposta decisa soltanto quando egli fosse sicuro che le fortezze sarebbero state cedute alle sue forze, e le armi della guardia urbana,, stata costituita lì per lì alla meglio, venissero depositate fuori della porta a San Niccolò.


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Firenze vecchia.
Storia cronaca anedottica costumi (1799-1859)
di Giuseppe Conti
Bemporad Firenze
1899 pagine 714

   





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