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      Oggi, che tutto ciò si sente molto meno, bisogna pur dirlo per quanto s'abbia l'ipocrisia di non volerlo riconoscere, i frammassoni di quei tempi parrebbero codini e nulla più.
      Povere menti che tanto faticarono, povere vite spente sui patiboli o nelle galere, quanto diversa doveva esser la riconoscenza e la reverente memoria dei posteri!
      Ma non ci confondiamo. La Toscana, dunque, viveva come in una specie di blandizia dell'anima; e mirava indifferente lo sforzo dei liberali, che cozzavano contro la tirannia di principi e di ministri codardi. L'indifferenza però nasceva dalla poca fiducia nella buona riuscita della causa, essendo i fiorentini ammaestrati da un duro passato, a non partecipare alle illusioni dei pochi liberali delle altre provincie d'Italia.
      Quello che poteva fare Firenze, e lo fece con slancio sincero di vero patriottismo, fu di accogliere gli esuli di altre città e difenderli; coadiuvati in ciò anche dalla clemenza del Granduca, presso il quale si ritiravano altresì i principi degli Stati dove non si sentivano tanto sicuri, e qui trovavano asilo, e non avevan da temere le molestie dei carbonari e dei frammassoni, che alla lor volta trovando in Firenze onesto rifugio alle persecuzioni, erano esuli al pari dei sovrani contro i quali nei propri paesi cospiravano.
      Un avvenimento quasi inaspettato, che dette per qualche giorno un po' più di vita a Firenze, fu l'arrivo dell'imperatore Francesco d'Austria, fratello del granduca Ferdinando III, il quale, con la scusa di riveder lui, e di prendersi un po' di svago, venne a fiutare che vento spirava in Italia riguardo appunto al segreto lavorìo della frammassoneria e della carboneria.


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Firenze vecchia.
Storia cronaca anedottica costumi (1799-1859)
di Giuseppe Conti
Bemporad Firenze
1899 pagine 714

   





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