E in pari tempo vittoriosamente interpretavo il monogramma di lui(73).
Fu giusto in quel punto che, sapendomi immerso in istudî profondi, m'affrontarono a man salva, mi colsero alla sprovvista, piagandomi il fianco con obliqua ferita.
Tanto più che a que' dì Giuseppe Garibaldi volgeva manifestamente al fine della sua carriera mortale. Guai s'io avessi potuto trovarmi d'attorno al letto dell'illustre morente! S'io avessi potuto raccogliere li estremi sensi di lui!
E ricevere, non è dubbio alcuno, un'altra copia autografa del Testamento politico di lui!
Ecco perchè nell'istante medesimo che Garibaldi s'addormentava nel sonno eterno, io mi trovavo sostenuto in Genova.
Congiuntura freddamente, ipocritamente, malignamente calcolata!
Pendevami sul capo un'infame accusa trisulca: di quelle che sbirri e giustizieri austro-sabaudi, stretti in sordida lega, sanno razzolare ne' bassi fondi delle loro immonde coscienze, pur d'ubbidire alle ingiunzioni dell'alto.
Ma talune accuse, per quanto scellerate e fraudolenti, non fanno presa e non penetrano.
Di qui nasce che quella premeditata ingiustizia, - tramata a Vienna e preordinata da Roma, avanti che consumata in Genova, - vergata con l'una delle penne maestre dell'aquila bicipite d'Asburgo; - è nulla ed irrita e nella mia coscienza, e nella coscienza del popolo d'Italia, il quale ben saprà, ne ho fermissima fede, sanar le piaghe, inflittemi da giustizieri simulatori e codardi.
Non è questo il luogo ov'io disacerbi le mie personali disavventure. Ma ne tratterò distesamente nell'Odissea d'un patriota.
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