Ho tentato di supplire a questo vòto con alcune mie note, le quali si troveranno riunite in fine dell'opera, sotto il nome di "appendici". Ma io le considero come due braccia, che un dozzinale artefice moderno voglia rimettere ad una bella statua antica. Solo ti prego, o lettore, se mai talune cose, che leggerai nel testo, ti sembreranno strane e lontane dalla comune opinione, a non volerle tosto condannare, ma a sospendere il giudizio tuo finché non abbi lette le mie appendici. Anche in me la lettura del testo produsse una quasi nauseosa sensazione di stranezza; ma, pensando molto su quello che in esso si diceva, son giunto a convincermene, e mi sono accorto che questa sensazione di stranezza è spesso una scusa per dispensarci dal pensare.
Era giunto a questo punto, o lettore, quando un mio amico, cui io avea dato a leggere il manoscritto, è venuto da me, e mi ha fatto quel ragionamento che io voglio trascriverti intero, ad onta di dover render anche piú lunga questa mia giá lunghissima prefazione.
AMICO. Tu dái alla luce un'opera senza unitá di azione. Che volea far mai in quel suo viaggio il tuo Cleobolo, o Platone, o chiunque egli sia?
RISPOSTA. Viaggiare.
AMICO. Ma chi viaggia è necessario che abbia un fine, una mèta. È necessario che l'abbia chi vuole stampare un'opera qualunque. In cotesta opera tua si parla di leggi, di arti, di politica, di musica, di scienze, di amore; e di che mai non parla cotesto tuo greco?
RISPOSTA. Il mio greco viaggiava e scriveva tutto ciò che gli avveniva o che osservava nel suo viaggio.
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Cleobolo Platone
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