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      Io ritrovo la filosofia di Pittagora nella lingua che parlano gli abitatori dell'interno dell'Italia, i quali al certo non han potuto discendere dalle colonie nostre, quali si dicono essere Taranto, Crotone, Sibari. La lingua, che parlano questi italiani, non ha al certo veruna origine greca(118).
      Nel linguaggio di questi popoli il vero non è altro che il fatto: non vi è altro carattere della veritá che l'essere; non vi è altra dimostrazione che il fare. "Intendere" è comprender la cosa in tutte le sue parti, saper come siesi formata, conoscerne le cause e gli effetti. "Pensare" vale meno d'"intendere", ed è lo stesso che andar raccogliendo ad una ad una, e quasi a tentoni, le veritá. L'uomo pensa, ma non può comprendere tutte le veritá, perché non tutte le cose può fare: tutto comprende la divinitá, perché tutto può fare, tutto ha fatto, tutto contiene in sé. Le di lei idee son voleri, ed i voleri sono le opere sue. Noi altri greci ammiriamo tanto Omero, perché ha dipinto il sopracciglio di Giove che muove col cenno tutti gli elementi; ma ciò, che Omero ha descritto, gl'italiani hanno imitato, ed hanno immaginato, per esprimere la divinitá, una parola tale, che indica appunto quel cenno irresistibile, con cui può tutto ciò che vuole. Essi la chiamano "Nume". Non saprei altrimenti renderti in greco questa parola se non col "disse e fu fatto". Se gli dèi di Omero fanno tre passi e giungono al luogo designato, questa parola trasmette in un istante nella tua mente tutta la forza del potere divino.


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Platone in Italia
di Vincenzo Cuoco
Laterza Bari
1928 pagine 772

   





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