- Tu incominci, o saggio Clinia - diss'io allora - dal credere vera una cosa, la quale per lo meno deve riputarsi disputabile. Tu dái per vero che, sciogliendosi quest'inviluppo del nostro corpo, rimanga quel principio pensante, che forma il me. Sia simile alla materia che è soggetta ai miei sensi, sia diversa (questo né si può, né, per ora, importa sapere), tu sempre credi esser una parte sola di me quella che pensa, e conservar essa, anche scomposta la macchina le di cui azioni forman la vita, la facoltá di pensare. Il braccio, però, di un uomo morto piú non si move: il suo moto non era nel braccio, ma in tutta la macchina. Or, quando questa piú non vi sará, quando il braccio avrá perduto il suo moto, la lingua il suo gusto, l'occhio la sua facoltá di vedere, credi tu che la mente, separata da tutte le altre parti, conserverá la sua facoltá di pensare? Tu dici, è vero, che nulla muore nel mondo: ciò, che agli occhi nostri è una distruzione, non è per la natura che una generazione novella. Ma dimmi: se, quando le particelle che compongono il mio braccio passano a comporre un altro essere, pérdono e gli uffici e le virtú di braccio, come mai avverrá che la tua mente rimanga sempre mente?
- Tutto si cangia nel mondo - rispose Clinia; - ma tutto, cangiandosi, conserva l'intrinseca sua natura. Se cosí non fosse, tutto morirebbe. Le parti del mio braccio son destinate a muoversi: unitele a qualunque altro essere, esse si moveranno sempre. La mia mente è destinata a pensare: unitela, separatela, penserá sempre.
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