Poter soffrire i mali, che vengon dall'uomo, è la piú vergognosa delle viltá; saper soffrire quelli che ci vengono dal fato è, per i primi popoli, il piú sublime eroismo. Macco, che garrisce col padrone e ne è bastonato, è il protagonista della commedia; un eroe, che è anch'egli bastonato dal fato, è il protagonista della tragedia antica. Né altri protagonisti si veggono nelle tragedie vostre fino ad Eschilo, e perché non diremo fino allo stesso Sofocle?
A poco a poco i costumi di un popolo s'incivilirono. L'esperienza di molti tempi e le cure de' sapienti, rendendo l'industria dell'uomo maggiore, resero minore la forza del fato. Il di costui impero incomincia dove finisce quello dell'uomo. Come, nelle tavole geografiche, ove finiscon le regioni a noi note, sogliam segnare "mare", "deserto", "inabitabile"(210); cosí nella tavola, ove è dipinta la vita umana, oltre la linea, alla quale giungono le nostre forze ed il saper nostro, noi segniamo "impero del fato". Migliori ordini civili resero la vita piú sicura, le ingiustizie piú rare, l'uomo piú eguale ad un altro uomo. Tutto, insomma, fece nascere nuovi pensieri e costumi nuovi, ed il bisogno di nuove virtú e di un nuovo genere d'istruzione. La plebe rimase sempre ammiratrice di Macco e del fato, perché rimase sempre fanciulla; ma i savi vollero ridere a spese dell'avaro, del dissoluto, del sofista, del ciarlone, del parasito, dell'adulatore: vollero ammirare esempi di giustizia, di generositá, di amor coniugale, di amor di patria; fremere ad altri orrori che a quelli della famiglia di Tieste e piangere ad altre sciagure che a quelle di Prometeo.
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