- Disse, e sputò di nuovo. La figlia diede un'altra occhiata alla sua veste, e sputò anche essa.
- No, Timareta - rispose Clinia: il nume, che io propongo a lodarti, è il signore degli uomini e degli iddii, padre dell'amicizia e della libertá, compagno indivisible di Ercole e di Mercurio, protettori della cittá nostra; de' quali il primo colla forza la vita de' cittadini difende dalla violenza e dalle ingiurie; il secondo prepara colla parola gli animi de' cittadini a quella concordia che sola può render salutare a tutta la patria la forza di ciascuno de' suoi figli(435). -
Clinia disse queste parole colla calma di un saggio. Gli altri furono meno pazienti. Ed eccoti tutti dar addosso alla sputasennto Timareta. Non mancò qualche sarcasmo. Aristosseno dimandò: - Credi tu, Timareta, che per soverchia prudenza non si possa corrompere l'amore? - Insomma il rumore andava a divenir grande, quando Eraclito, di cui conosci il dono che ha dalla natura de' versi estemporanei, prese la lira, e, fatto segno di silenzio, incominciò a cantare un ditirambo ch'egli diceva esser di Parmenide.
Mi ha promesso di scriverlo.
Mi parve bello, degno che tu lo leggessi. Ma chi se lo ricorda? Io l'udii come un suono lontano, che bisbiglia, dolcemente confuso, all'orecchio di un uomo fortemente occupato da altri pensieri. Mentre gli altri disputavano, io avrei fulminata cogli occhi la vilissima Timareta. Tutto ciò che mi era avvenuto nei giorni passati mi ritornò, pel suo discorso, in mente; ed io dimandava tremando a me stesso: - Nudrisse forse Mnesilla pensieri simili a quelli della spigolistra sua zia e della sua mocciosa cugina?
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