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      Ma essi eran troppo potenti; e noi, messa da un lato della bilancia una guerra, in cui si disputava tra la vittoria ed una morte gloriosa, e dall'altro una pace, la quale, dopo pochi anni di ozio, ci avrebbe ridotti a certa e vergognosa morte, noi scegliemmo la guerra.
      Non mai con segni tanto manifesti gl'iddii mostrarono ch'essi sono i padroni della sorte degli uomini e delle cittá, e che alternano le buone e le triste vicende per eseguire i loro disegni e dare agli uomini ed ai popoli alte lezioni di virtú. Imperciocché, amici, non c'inganniamo: gli iddii son giusti; e, quando han decretato nella lor mente che un popolo sia grande, lo voglion nel tempo istesso virtuoso; onde è che spesso lo mettono in estremi pericoli, da' quali è libera la vita tranquilla ed oscura di quegli altri popoli ch'essi han destinati a produrre e consumare i frutti della terra, affinché con tali pericoli si conforti il loro coraggio e si ridestino le loro virtú. Non mai sará noto fuori delle proprie mura un popolo il quale non sia stato piú volte in pericolo di perire. Le grandi sciagure i grandi popoli le debbono interpretare come nuovi patti di fortuna stipulati cogl'iddii.
      Noi incominciammo la guerra con un delitto; delitto vile, delitto indegno di Roma. Si erano spediti de' legati all'esercito de' Galli. Eran giovani della famiglia Fabia, e non indegni de' loro maggiori. Ma, superbi per la gloria degli avi, amanti della patria e caldi per gioventú, esposero con alterigia le loro dimande e ne ricevettero con intolleranza le risposte.


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Platone in Italia
di Vincenzo Cuoco
Laterza Bari
1928 pagine 772

   





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