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      Ed ecco tutto l'effetto di quell'alleanza che noi tanto ardentemente desideriamo: noi saremo utilissimi ai romani, essi non potranno esserlo a noi; essi potran cagionare a noi molto male, noi a loro pochissimo o nessuno.
      Non ci lasciamo illudere da speranze fallaci: conosciamo le vere cagioni delle cose. Se noi non possiamo esser temperanti, siamo almen forti; se ci è negato di vivere in pace, procuriamo almeno di vincere in guerra. Ma la vera forza di un popolo non sta né nel numero degli uomini né nell'estensione del suo territorio. Se ciò fosse, i principali tra i popoli d'Italia sarebbero tutti eguali, poiché, se taluno tra essi cede in numero di uomini ed in terre, siccome voi tarantini, supera gli altri in ricchezza, e può nel bisogno assoldare aiuti stranieri. E se tra questi popoli si potesse dare ad un solo il primato, non vi è dubbio che il consenso di tutti lo darebbe a noi sanniti, e per numero di uomini ed ampiezza di dominio, nel che a nessuno cediamo; e per fertilitá di suolo, nel che cediamo a pochi; e per ricchezze, nelle quali cediamo a voi soli(576). In forza ed in armi non possono paragonarsi a noi che i soli romani, i quali (è necessitá confessarlo) vagliono molto piú di noi colla fanteria(577) ed hanno disciplina superiore alla nostra; talché, se noi un giorno avrem guerra con essi, non sarem vinti per mancanza di valore. I nostri disprezzano quanto basta l'inimico, ma non rispettano abbastanza il proprio capitano; presso i romani, al contrario, è antichissimo e santissimo precetto temer piú il capitano che l'inimico(578).


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Platone in Italia
di Vincenzo Cuoco
Laterza Bari
1928 pagine 772

   





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