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      Imperciocché l'infanzia ed il sonno (due cose, delle quali la prima è la piú lieta parte della vita, la seconda la piú trista immagine della morte) hanno tra loro comune il principio, ch'è sempre la mancanza delle forze; comune il fine, ch'è sempre il ristoramento delle medesime; comune il mezzo, che, tanto nell'una quanto nell'altro, è sempre quello di accrescer le forze risparmiandole. Nell'uomo che dorme cessa l'esercizio di tutte le facoltá volontarie, nel fanciullo esso non è ancora sviluppato: quegli non sente, questi non avverte: pel primo la natura non esiste, pel secondo esiste invano: quanto maggior forza di volontá e di ragione richiede l'esercizio di una facoltá, tanto essa è piú sollecitamente e piú profondamente assopita nell'uomo che dorme, piú lenta, piú tarda a svilupparsi nel fanciullo. Nella quiete di tutte le nostre facoltá, non vegeta nell'uno e nell'altro se non quella sola ch'è indispensabile alla vita. Cosí que' popoli, i quali o sono o cadono in barbarie, di tutte le arti non ritengono se non quelle sole che sono indispensabili a conservare la specie; di tutte le leggi non altre che quelle della forza, unica e prima autrice della societá ed unica conservatrice della medesima, quando la mancanza di tutt'i beni ch'essa suol darci n'estingue negli uomini ogni amore; e tra tutti gli affetti umani, i quali formano i veri ed i soli vincoli sociali, prevale lo sdegno, primo, sebben feroce, campione della ragione, artefice primo di ogni giustizia e principal mezzo per cui gli uomini ed i popoli possono arrivare a civiltá senza esser corrotti.


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Platone in Italia
di Vincenzo Cuoco
Laterza Bari
1928 pagine 772