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      Di proprio il Cuoco vi pose sopra tutto quell'acuta nostalgia pel loco natio, che lo tormentò durante i primi anni dell'esilio milanese(712), e che rende queste sue pagine "sannitiche", malgrado qualche lungaggine, le piú calde e vive dell'opera.
     
     
      2. Tesi nazionalista.
     
      Il Cuoco la presenta in duplice forma:
      a) non i greci ma gli antichissimi italiani furono i veri fondatori della filosofia, anzi "gl'inventori di quasi tutte le cognizioni che adornano lo spirito umano"(713);
      b) non uno ma due periodi luminosi di civiltá ebbe l'Italia antica nella sua piú che millenaria storia: il primo, le cui origini si perdon nella notte dei tempi, e a cui giá prima della cosí detta guerra di Troia era sottentrato un periodo di decadenza e poi di vera e propria barbarie; il secondo, di civiltá "ricorsa" o "ritornata", le cui origini, sempre autoctone, coincidon press'a poco con quelle della civiltá greca.
      Si suole affermare che, in codesta visione prettamente nazionalista della storia dell'Italia antica, il Cuoco s'ispirasse direttamente a Giambattista Vico. E certamente che egli credesse per tal modo d'avere interpetrato rettamente il pensiero del Vico; - che molte idee vichiane egli trasfondesse nel Platone in Italia (la riduzione di Pitagora, di Omero e, ancora, della guerra di Troia e dei decemviri a caratteri poetici, la considerazione del pitagorismo come setta prevalentemente politica, la teoria dei ricorsi, l'altra del "motivo di vero" che è in ogni tradizione mitologica, ecc. ecc.); - che anzi egli fosse, in un certo senso, un postumo discepolo del Vico (e un discepolo cosí intelligente, che, mentre si faceva alacre, infaticabile ed entusiasta diffonditore delle dottrine del maestro(714), sapeva anche coglierne taluni errori e manchevolezze(715): - son cose tanto piú sicure, in quanto vengono affermate dal Cuoco medesimo(716). Sennonché, laddove è innegabile che nel giovanile De antiquissima italorum sapientia il Vico, "promuovendolo la disposizione, nella quale era giá entrato, che l'incominciavano a dispiacere l'etimologie de' gramatici, s'applicò a rintracciarle dentro le origini delle voci latine", venendo per tal modo ad affermare "che il sapere della setta italica fiorí assai innanzi, nella scuola di Pitagora, piú profondo di quello che poi fiorí nella medesima Grecia"(717); - è cosa parimente certa che codesto "errore borioso" (come lo chiama il Vico medesimo) fu nelle opere posteriori esplicitamente rifiutato(718). Meglio ancora: il Vico, ricercandone in se medesimo le ragioni, lo attribuí a quel "fonte inesausto di tutti gli errori presi dall'intiere nazioni e da tutt'i dotti d'intorno a' principi dell'umanitá", vale a dire alla "boria de' dotti" (o intellettualismo), "i quali ciò ch'essi sanno vogliono che sia antico quanto che 'l mondo", e alla "boria delle nazioni" (o nazionalismo), per la quale ciascuna di esse afferma "d'aver prima di tutte l'altre ritruovati i comodi della vita umana e conservar le memorie delle sue cose fin dal principio del mondo"(719). Due "degnitá", queste ultime, che son la chiave di vòlta della seconda Scienza nuova (fondata sulla "sapienza poetica", ossia sulle origini barbariche di tutte le nazioni), ma di cui pare che il Cuoco non s'accorgesse mai.


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Platone in Italia
di Vincenzo Cuoco
Laterza Bari
1928 pagine 772

   





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