Fatto č che, di fronte alla storia dell'Italia preromana, s'era, giá prima del Novantanove, formato in taluni scrittori politici napoletani (per esempio nel Galanti) uno stato d'animo affine a quello del Rousseau e degli ideologi francesi, allorché fantasticavano intorno allo "stato di natura" e all'"etá dell'oro" dell'umanitá.
Fin da allora quegli scrittori amavan grandemente la patria (sia pure ristretta agli angusti confini del Regno di Napoli); fin da allora la volevan forte, florida, lavoratrice; e la vedevano intanto molle, oziosa e sopra tutto priva di "spirito pubblico", cioč di quel senso etico-politico, "impresso dalla natura e sviluppato dalla ragione, che ci fa preferire l'onesto all'utile, i nostri doveri a' nostri vantaggi, la salute della patria alla nostra esistenza"(720). Da che, con processo analogo a quello degli ideologi francesi, a cui non mancavan di fare appello(721), la loro creazione semifantasiosa d'un'"etá dell'oro" della storia italiana, durante la quale gl'italiani sarebbero stati "virtuosi, potenti e felici"(722). Naturale, pertanto, che, in codesto stato d'animo, accentuato dalle catastrofi del Novantaquattro e del Novantanove, per le quali i patriotti napoletani cominciarono a sentirsi non piú soltanto "regnicoli" ma anche e sopra tutto "italiani", il Nostro finisse col creder vichiana una concezione pseudo-storica ch'č in perfetta antitesi col pensiero del Vico. La cosa č tanto vera che bastň che la passione politica tacesse un momento in lui, perché, con evidente contradizione (ch'č implicita autocritica), il Cuoco scrivesse che "i popoli caduti in bassa fortuna o pérdono nella miseria ogni energia, si avviliscono e venerano come maestri quelli ai quali ubbidiscono come signori; o, se pur resistono alla fortuna, oppongono all'avvilimento presente la memoria della grandezza antica, e, per vendicarsi della sorte, calpestano la veritá"(723).
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