Vanni avea accusati al re tutti i giudici, il presidente del Consiglio Mazzocchi, Ferreri, Chinigò, gli uomini forse i piú rispettabili che Napoli avesse e per dottrina e per integritá e per attaccamento al proprio sovrano; e un momento forse si dubitò se dovessero esser puniti questi tali o Vanni. Se Vanni rimaneva vincitore, avrebbe compíta l'opera della perdita del Regno e della rovina del trono. Per buona sorte era giunto all'estremo, e rovinò se stesso per aver voluto troppo. Ma, prima che ciò avvenisse, di quanti altri uomini utili avrebbe privato lo Stato, e quanti fedeli servitori avrebbe tolti al re? Quando anche il rovescio del trono di Napoli non fosse avvenuto per effetto della guerra, Vanni sarebbe bastato solo a cagionarlo, e lo avrebbe fatto.
Vanni fu deposto ed esiliato dalla capitale: si tentò di raddolcire in segreto il suo esilio, ma invano. L'anima ambiziosa di Vanni cadde in un furore melanconico, il quale finalmente lo spinse a darsi da se stesso una morte, che, per soddisfazione della giustizia e per bene dell'umanitá, avrebbe meritato da altra mano e molto tempo prima. La sua morte precedette di poco l'entrata de' francesi in Napoli. Egli li temea, avea chiesta alla corte un asilo in Sicilia, e gli era stato negato. Prima di uccidersi scrisse un biglietto, in cui diceva: «L'ingratitudine di una corte perfida, l'avvicinamento di un nemico terribile, la mancanza di asilo mi han determinato a togliermi una vita che ormai mi è di peso. Non s'incolpi nessuno della mia morte; ed il mio esempio serva a render saggi gli altri inquisitori di Stato». Ma gli altri inquisitori di Stato risero della sua morte, ne rise Castelcicala; e l'inquisizione continuò collo stesso furore, finché i francesi non furono a Capua.
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