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      Una parte di questi fondi pubblici fu occupata dalla corte, e questo non fu il maggior male; l'altra, sotto pretesto di essere male amministrata dalle popolazioni, fu fatta amministrare dalla Camera de' conti e da un tribunale chiamato «misto», ma che, nella miscela de' suoi subalterni, tutt'altro avea che gente onesta. L'amministrazione dalle mani delle comuni passò in quelle de' commessi di questi tribunali, i quali continuarono a rubare impunemente, e tutto il vantaggio, che dalle nuove riforme si ritrasse, fu che si rubò da pochi, dove prima si rubava da molti; si rubò dagli oziosi, dove prima si rubava dagl'industriosi; il danaro fu dissipato tra i vizi ed il lusso della capitale, dove che prima s'impiegava nelle province; la nazione divenne piú povera, e lo Stato non divenne piú ricco.
      Lo stesso era avvenuto per i fondi allodiali e gesuitici(18). Tutto nel regno di Napoli tendeva alla concentrazione di tutt'i rami di amministrazione in una sola mano. Ma questa mano, non potendo tutto fare da sé, dovea per necessitá servirsi di agenti non fedeli, e la nazione allora cade in quel deplorabile stato, in cui dagl'impieghi sperasi non tanto l'onore di servir la patria quanto il diritto di spogliarla. Allora la nazione è inondata da quelle «vespe» giudicatrici, che tanto ci fanno ridere sulle scene di Aristofane.
      La nostra capitale incominciava ad essere affollata da quest'insetti, i quali, colla speranza di un miserabile impiego subalterno, trascurano ogni fatica: intanto i vizi ed i capricci crescono coll'ozio, ed, il miserabile soldo che hanno non crescendo in proporzione, sono costretti a tenere nell'esercizio del loro impiego una condotta la quale accresca la loro fortuna a spese della fortuna dello Stato e del costume della nazione.


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Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799
di Vincenzo Cuoco
pagine 270

   





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