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      Dappoichè, come abbiamo visto, eransene giovato i contemplanti a confermare dogmi religiosi e morali dottrine; i politici, a stabilire nelle coscienze il predominio di opinioni ed interessi mondani; i poeti a mostrare tutti i capricci della loro fantasia, e dare sfogo alla naturale arguzia e alla vena satirica; e per tal modo era, di generazione in generazione, diventata forma capacissima di concetti, significati, intenti fra loro diversi. Nè basta: nel poema di Virgilio egli trovava una descrizione del Tartaro, come nel Sogno di Scipione del grand'oratore di Roma quella della dimora assegnata ai giusti140: e il suo stesso maestro, Brunetto Latini, col proprio esempio141 gli insegnava, quanto giovasse, nudrito del cibo della morale filosofia, contemplare dall'alto l'ajuola che ci fa tanto feroci.
      Dante ben vide tutto il partito ch'ei poteva trarre dall'uso della Visione; ma, oltre la eccellenza dell'ingegno, gli errori stessi dei poeti, che lo avevano preceduto, lo ammonivano a non rifare un poema di meri simboli, come il Roman de la Rose e il Tesoretto, o di mera scienza, come l'Acerba di quel Cecco d'Ascoli, che all'Alighieri scioccamente rimproverava l'uso delle favole142. Dante, con quella stessa felice intuizione del genio, che dopo un primo esperimento, gli fece lasciare la lingua latina per il volgare, scelse al suo vasto poema una forma veramente, per uso e per notizia, universale. Ma tutte le diverse ispirazioni che sopra abbiamo accennato, si univano per intima armonia, senza confondersi, nella mente del poeta; e tutti i fini particolari de' suoi predecessori si raccoglievano e ordinavano nell'unità del concetto e del magistero poetico.


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I precursori di Dante
di Alessandro D'Ancona
Arnaldo Forni
1874 pagine 50

   





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