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      Nulladimeno i miei lettori non ignoreranno, che la quistione messa in campo a Darwin non è niente nuova, e che molti fra gl'Italiani l'hanno con grande ingegno ventilata, fra cui merita particolar menzione l'Abate Francesco Venini; il quale magistralmente arriva a provare che i versi italiani, supposti non riconoscere altre leggi che quelle dell'orecchio, si riducono al principio universale della regolar misura del tempo, meglio forse degli stessi versi latini, cui tanto tempo prima si accordarono intrinseci rapporti colla musica. Del resto per quanto a me pare, quantunque di musica ignorante, credo che l'Abate Venini abbia colpito nel segno, e che a' nostri versi si possa riferire ciò che Darwin dice degl'inglesi; giacchè un buon lettore legge con diversa misura di tempo i differenti versi; e la natura stessa delle loro varie specie obbliga ad affrettare la pronuncia o ad allentarla, ad unire insieme a riprese più o meno sillabe, a far certe pause od a scorrere senza interruzione, giusta i diversi metri e le loro rispettive varietà di tessitura. Ed è appunto in conseguenza di questa proprietà della nostra versificazione, che gli abili poeti esprimono i loro pensieri piuttosto in un metro che in un altro, e combinano spesse volte insieme differenti specie di versi. Intorno a codesto argomento dovrebbero porre attento studio i dotti maestri di musica, i quali in allora non adatterebbero a ciascun metro, che un dato tempo, e non [162] si troverebbero più nella riprovevole circostanza di dover sì spesso far correre zoppiconi i più bei versi, con inevitabile strazio de' dilicati orecchi.


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Gli amori delle piante
di Erasmus Darwin
Pirotta e Maspero Milano
1805 pagine 266

   





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