Non giova rammentare in questo luogo quanti ostacoli non ha dovuto superare quel saggio medico onde persuadere, che contagiosa era l'indole della febbre di Livorno. La ritrosia de' medici in ammettere i contagi è sempre stata pervicace, e lo fu sempre in ragione della loro insipienza. Nella scorsa estate, in cui infierì in Genova una malattia reumatica accompagnata da gagliarda tosse, si eccitò tal contrasto d'opinioni fra due medici di quella città, che alla per fine fu con mezzi violenti imposto silenzio a quegli dei due, il quale riputava contagiosa la corrente malattia, sebbene pare assai probabile, che la ragione stesse per lui. La stessa ritrosia in ammettere la presenza d'una materia contagiosa ebbe luogo pure fra i nostri medici nella primavera del 1803 quando serpeggiava fra le nostre contrade la Grippe; lo che mi porse argomento di scrivere la seguente
[256] ODE.
Ohime! gli Dii ti perdonoSe in Esculapio credi.
SAVIOLI.
Onde avvenne, che subitoPensier cangiasti, Eurilla,
Nè l'orme più rivolgereBrami a l'usata villa?
Di tua promessa memoriGià gli olmi, e l'elci amiche,
Di lunga a te ricopronoOmbra le strade apriche:
Mille te fiori chiamanoDal tremolante stelo,
E mille per te d'atomiFragranti empiono il cielo:
Già l'usignuol pateticoA render grate apprende
Col suo canto le tènebreQuando la notte scende;
Morfèo per lui fia ch'agitiLe piume più tranquille,
E veli con più facileMano le tue pupille.....
Che? dispettoso l'omeroTu scuoti, e torci il viso?
Qual per sì liete immaginiTi move odio improvviso?
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