E i tormenti s'inasprirono, ed egli se li cercò. Coll'avvicinarsi dell'estate, ella alleggerí ancora il suo abbigliamento, mettendo le sue forme in una evidenza che lo facea delirare. Egli risalí sul soppalco, a inginocchiarsi tra la polvere e le foglie secche, col viso all'abbaino, e la vista di lei, che dava allora le sue lezioni col busto scoperto, mostrando nude le larghe spalle e le braccia stupende, lo martoriava; e anche quando non la potea vedere, stava alle volte un'ora a sentir la sua voce, e quei comandi: "Prona, supina, palme in avanti, palme indietro, slancio simultaneo delle braccia" gli risonavan nell'anima come esclamazioni d'amore. Egli non dormiva più, la notte, per raccogliere tutti i rumori di sopra, al più lieve dei quali sussultava come se si fosse sentito i suoi piedini sul corpo. E s'affaticava il cervello, in quel dormiveglia febbrile, a immaginare astuzie e industrie temerarie per poterla vedere: dei buchi nel solaio, dei traforamenti di muri, delle combinazioni di specchi, dei nascondimenti impossibili. E al punto d'eccitamento a cui era arrivato, non si guardava più dai vicini per appostarla: usciva, entrava, risaliva a tutte l'ore, la seguitava per la strada, l'aspettava nel cortile, pigliava tutti i più futili pretesti per parlarle, le offriva ogni specie di strani servizi, in presenza di chi che sia, non più con l'aria d'un pretendente, ma d'uno schiavo, faticandola con uno sguardo fiammeggiante, ma umile, che non chiedeva amore, ma compassione, ripetendo come l'eco ogni sua parola, abbracciando in un solo sentimento di smisurata ammirazione la sua persona, il suo ingegno, la sua fama crescente, la più comune e più vuota delle sue frasi.
| |
|