Poi tutto sarebbe finito. Di nessun'altra cosa si curava. Come, entrando, non aveva nemmen guardato quell'aula storica che non aveva mai vista, cosí non sentí neppure una parola dei discorsi che allora vi risonavano.
La discussione s'aggirava ancora intorno al tema che era già stato trattato il giorno avanti: sull'opportunità d'introdurre nelle scuole gli esercizi di lavoro manuale. Aveva parlato prima, con grande dolcezza, una maestrina veneta, facendo vedere un modo trovato da lei d'insegnare a far dei canestrini con nastri di carta, e un saggio dell'opera sua andava girando di mano in mano per i banchi, dove le maestre si provavano a rifare il lavoro. Poi aveva parlato un maestro calabrese, con una voce cantante e lamentosa, mostrando una grossa cesta piena di lavori fatti nella sua scuola, fra i quali c'era anche un paio di scarpe. Dopo di lui, avendo parlato alcuni oratori dissenzienti, la discussione s'era accalorata e inasprita. Una bella maestra, che faceva da segretario, dovette rileggere una parte del verbale dell'altra seduta. V'era in un banco dell'estrema sinistra una schiera di giovani maestri lombardi arditi e battaglieri, che il presidente, con tutta la sua pazienza sacerdotale, non riusciva a racquetare. Due maestri, dalle parti opposte dell'aula, si scambiarono delle parole acri. In somma, una gran parte del tempo se n'andava in quistioni di prammatica parlamentare, gli oratori sentivano l'influsso dell'aura politica della sala, parlavano con troppa enfasi, mostravan un amor proprio eccitabile.
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