— È un piacere nuovo quello di veder qualche cosa che, in un certo senso, occupi incontrastabilmente il supremo grado nel mondo; qualche cosa di là da cui non si può spingere il pensiero senza entrar nel regno dei sogni; qualche cosa dinanzi a cui potete dire: — Nessun uomo ha visto mai nulla di più grande! — E poi mi rallegravo pensando che andavo a Londra solo, senza conoscerci nessuno, senza lettere di raccomandazione, come ci si deve andare per potersi sentir smarriti in quell’oceano, per provarci quel sentimento quasi di paura, che infondono i grandi spazi ignoti, per essere schiacciati, per ricevere, in una parola, l’impressione schietta ed intera che quella città immensa deve produrre nell’animo d’uno straniero. E quanto a questo, avevo anco il vantaggio di non sapere una saetta d’inglese, di esser corto a quattrini, di non avere che una valigetta che spirava miseria, e infine tutto quello che ci vuole per sentirsi piccino e meschino in una grande città sconosciuta. Pensando a tutto questo, mi davo una fregatina alle mani e dicevo: — Londra, son pronto!
Era notte fitta quando entrai nella città. V’entrai senza accorgermene, e mi meravigliai quando mi fu fatto cenno di scendere. Scendo, mi trovo sotto l’immensa tettoia della stazione di Londonbridge, in mezzo a un visibilio di carrozze e di lumi. Salgo nella carrozza più vicina e porgo al carrozziere un pezzetto di carta con su scritto il nome e la strada dell’albergo che m’avevan consigliato a Parigi. Il carrozziere legge, fa segno che ha capito e non si muove.
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