Gli accenno che salga a cassetta e parta; ed egli duro. Mi metto a inveirgli contro in francese; non capisce una maledetta, e appoggiandosi pacatamente allo sportello comincia a filarmi una lunga chiaccherata in inglese. — Ora sto fresco! — dico io, — o come fare? — Incrocio le braccia e lo guardo; egli incrocia le braccia e mi guarda; e stiamo così guardandoci qualche momento. Infine perdo la pazienza, salto giù, gli urlo all’orecchio: — Mulo! — e me ne vado da me. Capii dopo che non m’aveva voluto condurre all’albergo perchè era troppo lontano. Me ne vado da me! ma come? ma dove? Confesso che in quel momento mi sentii scoraggiato. Quella immensità della stazione di cui non trovavo l’uscita, il non sapere dove sarei andato a battere del capo, quel primo incontro sfortunato che mi pareva un cattivo augurio, il peso della valigia che m’impediva il passo, l’umidità che mi sentivo addosso, la notte, la confusione, mi diedero un sentimento improvviso di tristezza e di sgomento. Dopo aver errato un po’ a casaccio, infilai una porta e mi trovai fuori. Mi parve d’essere caduto nel caos. Uno strepito di carrozze che non vedevo, un fischiar di treni di strada ferrata che non capivo dove passassero, una confusione di lumi sopra e sotto, da tutte le parti e a tutte le altezze, una nebbia che non mi lasciava raccapezzare nè forme nè distanze, e un va e vieni di gente che pareva che fuggissero: tale fu il primo spettacolo che mi si offerse. Ciondolando, zoppicando, percorsi un tratto di strada, come uno stupido, colla testa non so dove; poi, non potendo più reggere la valigia, la posi in terra e mi fermai.
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