A poco a poco i rumori più alti cessarono, non udii più che il brontolìo monotono; poi, di tratto in tratto, riudii i rumori di prima, – una città come Londra stenta a prendere sonno; – poi cessarono daccapo; finalmente m’addormentai e feci i più stravaganti sogni del mondo.
Facciata del palazzo di Westminster, veduta dalla riva del Tamigi.
La mattina, assai prima del levar del sole, uscii, e mi diressi verso il Tamigi. Ero a pochi passi dal ponte-di-Londra, nel cuore della City. Si vedeva pochissima gente, regnava un gran silenzio, il cielo era grigio, faceva freddo, una nebbia leggera velava tutte le cose senza nasconderle. Andai verso il ponte a passi rapidi, sapendo che di là si godeva il più gran colpo d’occhio di Londra.
Arrivato in mezzo al ponte, guardai intorno, provai un istantaneo senso di freddo dal capo alle piante e rimasi immobile.
Subito dopo mi balenò dinanzi l’immagine di Parigi vista dal Ponte Nuovo, e mi parve straordinariamente piccina.
Poi mi appoggiai alle spallette e dissi coll’accento di chi vuoi mettere un po’ d’ordine nella sua testa: — Vediamo.
Sotto, il Tamigi larghissimo; da un lato bastimenti a perdita d’occhio, dall’altro una successione di ponti giganteschi; lungo le due rive, vicino al ponte, case robuste e nere, come vecchie fortezze, affollate disordinatamente, e pendenti a filo sull’acqua. Un po’ più oltre, grandi moli di edifizi d’aspetto sinistro, smisurate tettoie a vôlta di stazioni di strada ferrata, lunghe linee diritte come d’enormi bastioni; e di là da questi, una confusione di contorni spezzati e di forme vaghe via via digradanti in leggere sfumature cineree, fino a non presentar più che un grandioso disordine di profili nebbiosi di comignoli, di camini, di torri, di cupole, di campanili; e più oltre ancora, prospettive misteriose quasi di altre città lontane, che s’indovinano, più che non si vedano, da una linea dentellata leggerissima che si disegna sull’orizzonte grigio.
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