Su tutti gli edifizi vicini, poi, sui ponti, sulle rive, un color cupo d’officina, un’aria di città logora, un aspetto di forza e di fatica, un non so che di viscoso e di lugubre, come d’una città desolata da un incendio; – uno spettacolo immenso e triste.
Che strani giochi ci fa il cervello! Dinanzi a questi spettacoli che ci dovrebbero, almeno per la prima volta, assorbire tutti interi, noi scappiamo col pensiero, tutt’a un tratto, mille miglia lontano, dietro alla più futile minuzia, che non ha nessunissima relazione con quello che vediamo, e a cui sdegneremmo di pensare nella nostra vita ordinaria. Io vedevo Londra per la prima volta, e pensavo a un volume dalle opere del Voltaire che avevo imprestato e non riavuto prima di partire da Torino.
Poi scordai il libro, e mi vennero a galla nella testa, come sempre succede in una città sconosciuta, mille immagini disparate di persone e di cose che per l’addietro solevo rappresentarmi in quella città, come sopra un fondo di quadro: certi negozianti panciuti dei romanzi del Dickens, la regina Elisabetta, una famiglia inglese vista un giorno davanti alle porte del Ghiberti a Firenze, un gesto che fece una volta mio padre dicendo: — Quanto darei per veder Londra! — e il ritratto dell’attore Garrik che avevo visto in un giornale illustrato.
Poi daccapo una distrazione inesplicabile, come quella di accorgermi che avevo la barba lunga e di dimandarmi dove avrei fatto colazione.
Poi un senso vivissimo di stupore di trovarmi là, come se ci fossi piovuto dal cielo; e dopo un minuto, tutt’a un tratto, una glaciale indifferenza, come se ci fossi sempre stato; e poi daccapo la meraviglia fresca del primo momento.
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