Avevo infilato una strada di cui non vedevo la fine, chiusa a destra dalle mura dei docks, a sinistra da piccole case in mezzo alle quali si allungavano altre strade strette e lunghissime, fiancheggiate da torri di officine, da muri di magazzini, da mucchi di casaccie affumicate; e via via che andavo innanzi, non che mi paresse d’allontanarmi da Londra, mi pareva d’avvicinarmi al centro. Ma pieno di fiducia nelle mie gambe, e incoraggito dall’esperienza di Parigi dove, con grande meraviglia dei mie amici, avevo sempre fatto di meno della carrozza, continuavo a camminare senza paura. Giunse però un momento che mi parve non sarebbe stato inutile sapere dov’ero. Passando accanto a un gruppo d’operai, ne udii uno che parlava francese; mi fermai e gli domandai se quello lì accanto era il dock delle Indie
Per tutta risposta mi ripetè la domanda. — Quello lì il dock delle Indie? — e mi guardò coll’aria di dirmi ch’ero matto.
— Ma è o non è?
— Ma caro signor mio, — mi rispose ridendo, — si vede che lei non ha un’idea di cos’è la città di Londra. Questo è il London-dock.
— Ancora il London-dock! Ma se è mezz’ora che son passato dinanzi alla porta!
— E con questo? Non sa lei che il solo scompartimento dei tabacchi del London-dock è lungo un miglio inglese?
— Ma allora quanto c’è per arrivare al dock delle Indie?
— Ci vuole andare in battello o per strada ferrata?
— Ci voglio andare a piedi.
Mi guardò i piedi.
— Io non so.... — rispose — ma m’immagino che siano quattro o cinque miglia.
— E che c’è per queste quattro o cinque miglia?
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