Avendoci un amico accompagnato, noi eravamo otto persone contando il signor Price ed i suoi tre agenti. Eranvi dunque due occhi che vegliavano sopra ognuno di noi: potevamo essere tranquilli. Sfilammo silenziosamente due a due lungo il marciapiede. Ben presto, lasciando la via Leman, che è larga e ben tracciata, – considerazione da farsi, perchè nei più poveri quartieri di Londra si trovano alle volte grandi arterie che farebbero invidia a quartieri meno miserabili, – ci cacciammo in un dedalo di vie strette e tortuose. Queste vie, quasi deserte di giorno, erano ora molto animate.
Tutte le botteghe illuminate; le taverne piene fin sulla porta, dove spesso gli avventori stavano ad aspettare per poter entrare. Ad ogni passo incontriamo gruppi di operai, di marinai mezzo ubbriachi, cantando o questionando. Agli svolti delle vie, bionde e pallide ragazze, la cui bellezza eguaglia qualche volta la gioventù, poverissimamente vestite, nudi i piedi e le gambe, la capigliatura in disordine, il petto appena coperto, avvicinavano i passanti con voce rauca. In tutto ciò era però un certo ordine, una certa calma; si comprendeva che l’ora degli ignobili saturnali non era ancora suonata, e che non si era ancora che sul principiare.
Il signor Price, per farci pazientare, ci conduce in Grace’s alley, al Principe di Danimarca, vasto stabilimento montato come un teatro. All’ingresso riconobbero la polizia e ci lasciarono passare senza biglietti. Il Principe di Danimarca è un caffè-cantante e danzante frequentatissimo; vi si mostrano anche cani e scimmie sapienti, e dei saltimbanchi vi fanno giuochi sul trapezio e sulla corda tesa.
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