Ritorniamo nel cuore della città: percorriamo la rete inestricabile delle piccole vie, piene di rumori, smaglianti di vetrine e affollate di memorie; tutte obliquità e svolti maliziosi, che preparano le grandi vedute inaspettate dei quadrivi pieni di luce e delle vie monumentali, chiuse in fondo da una mole magnifica, che sovrasta alla città come una montagna di granito cesellato. Per tutto è una fuga di carrozze cariche di bagagli, e visi sonnolenti e polverosi di nuovi arrivati, che s’affacciano agli sportelli a interrogare quel caos; e vicino alle stazioni, file di viaggiatori a piedi, che s’inseguono colla valigia in mano, come se uno l’avesse rubata all’altro. Non c’è un momento di riposo, nè per l’orecchio, nè per l’occhio, nè per il pensiero. Sperate di bere la vostra birra in pace davanti a un caffè quasi vuoto. Illusione. La réclame vi perseguita. Il primo che passa vi mette in mano una lirica che comincia con un’invettiva contro l’Internazionale e finisce coll’invitarvi a comprare un soprabito da Monsieur Armangan, coupeur émérite; e un momento dopo vi trovate tra le mani un sonetto che vi promette un biglietto per l’Esposizione se andate a ordinare un paio di stivali in via Rougemont. Per liberarvene alzate gli occhi. Oh Dio! Passa una carrozza dorata di réclame coi servitori in livrea, che vi propone dei cilindri al ribasso. Guardate in fondo alla strada. Che! A mezzo miglio di distanza, c’è una réclame a caratteri titanici del Petit journal, – «seicento mila esemplari al giorno, tre milioni di lettori» – che vi fa l’effetto d’un urlo nell’orecchio.
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