Allora tutta la vita gaia di Parigi si riversa là da tutte le strade vicine, dalle gallerie, dalle piazze; arrivano e si scaricano i cento omnibus del Trocadero; le carrozze e la folla a piedi che viene dagli scali della Senna; flutti di gente che attraversa la strada di corsa arrischiando le ossa, s’accalca sui marciapiedi, assalta i chioschi da cui si spandono miriadi di giornali, si disputa le sedie davanti ai caffè e rigurgita all’imboccatura delle strade. Si accendono i primi lumi. Il grande banchetto comincia. Da tutte le parti tintinnano e scintillano i cristalli e le posate sulle tovaglie bianchissime, distese in vista di tutti. Zaffate d’odori ghiotti escono dai grandi restaurants, di cui si vanno illuminando le finestre dei piani superiori, lasciando vedere scorci di sale luccicanti e ombre di donne che guizzano dietro le tende di trina. Un’aria calda e molle, come di teatro, si spande, pregna d’odor di sigari d’Avana, dell’odore acuto dell’assenzio che verdeggia in diecimila bicchieri, delle fragranze che escono dalle botteghe di fiori, di muschio, di vesti profumate, di capigliature femminili; – un odore proprio dei boulevards di Parigi, misto di grand’albergo e d’alcova, – che dà alla testa. Le carrozze si fermano; le cocottes dai lunghi strascichi discendono, fra due ali di curiosi, e spariscono come freccie nelle porte delle trattorie. Fra la folla dei caffè suonano le risa argentine e forzate di quelle che siedono a crocchio. Le «coppie» fendono audacemente la calca.
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