Nelle prime sale intravvedo i quadri sentimentali, leccati, del Bouguerau. Il Dorè v’ha messo una delle sue mille visioni d’un mondo arcano, in cui si riconosce appena qualche forma vaga di cose e di creature terrene. Poi vien la storia dotta e severa d’Albert Maignan, e quella immaginosa, confusa, vista come a traverso il velo d’un sogno, in una grande lontananza di spazio e di tempo, dell’Isabey. In un’altra sala si drizza davanti a Massimiano Ercole il fantasma spaventoso di San Sebastiano, del Boulanger, e il Moreau affatica e tormenta le fantasie coi suoi sogni biblici e mitologici pieni di terrori, d’illusioni e d’enimmi, che restano conflitti nella memoria come le formule misteriose e sinistre di uno scongiuro. Poi si succedono i ritratti pieni di vita e di forza. Il Dubufe presenta Emilio Augier, il Gounod, il Dumas; il Durand presenta il Girardin; il Perrin espone il Daudet; e il Thiers rivive gloriosamente nella tela del Bonnat, davanti a cui si accalca la folla. Un’altra folla silenziosa e immobile annunzia nella medesima sala le miniature meravigliose del Meissonnier. Più in là sorridono le patrizie eleganti del Cabanel, e il Laurens strappa un sospiro presentando insieme, nel suo nobilissimo Marceau, la bellezza, l’eroismo e la morte. Andando innanzi, trovo quella meravigliosa curvatura di schiene che ha fatto sorridere il mondo: l’Eminence grise del Gerôme; e il giustiziere formidabile del povero Henri Regnault: quadro splendido e triste, che serve di coperchio a un sepolcro.
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