Tutte queste cose, o sapute prima o intese dire, fanno lungamente esitar lo straniero che vuol andare a battere alla sua porta. Certo che, dopo la prima esitanza, si fanno delle riflessioni incoraggianti. Si pensa, per esempio, che il sentimento che ci trattiene dal presentarci a un uomo orgoglioso che ammiriamo, non è, in fondo, che un sentimento d’orgoglio. Poi si pensa a quanti scrittorelli miserabili di mente e di cuore, a quanti pedanti fradici e impotenti, a quanti imbrattacarte sconosciuti di villaggio non si sentono da meno di Vittor Hugo. E infine ci si dice che è una pazza presunzione la nostra, di credere che a noi, messi in luogo suo, non darebbe punto al capo la gloria di primo poeta d’Europa. E allora si ripiglia coraggio. Ma pure è una cosa che spaventa quel presentarsi là sconosciuti, senz’altra scusa che l’impulso del cuore, davanti a un uomo famoso nel mondo, nella grande città che lo festeggia, in casa sua, in mezzo a una folla di ammiratori, per dirgli... che cosa? Voglio vedervi!
V.
E non ostante, una mattina, mi trovai senza avvedermene nel cortile della casa N.° 20 di via Clichy, in faccia al finestrino del portinaio, e sentii con un certo stupore, come se parlasse un altro, la mia voce che diceva: — Sta qui Vittor Hugo? — Ero ben certo che stava là; eppure restai un po’ meravigliato nel sentirmi rispondere: — Si signore, al secondo piano — coll’accento della più fredda indifferenza. Mi parve molto strano che a quel portinaio paresse tanto naturale che là ci stesse Vittor Hugo.
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