Mi sfuggiva il sentimento della realtà. Mi domandavo se il Vittor Hugo ch’era nella stanza accanto fosse proprio quel Vittor Hugo che io cercavo, e non mi pareva possibile. E avrei voluto, infatti, che non fosse possibile. Mi pareva d’aver commesso un atto insensato. — Ma cosa ho fatto! — mi dicevo. — Bisogna che mi abbia dato volta il cervello. E cosa seguirà adesso? — E pensando ch’era possibile ch’egli non mi volesse ricevere, mi sentivo salire delle ondate di sangue alla testa. Improvvisamente la governante ricomparve e disse gentilmente: — Il signor Vittor Hugo la riceverà con piacere questa sera alle nove e mezzo. — Ah, governante adorata! Bisogna ch’io risalga a vent’anni fa, quando dopo aver aspettato per tre ore, immobile davanti a una porta, una parola che doveva darmi tre mesi di libertà e di piaceri o tre mesi di schiavitù e di umiliazione, usciva finalmente il segretario della Commissione a dirmi solennemente: — Promosso! — ;bisogna ch’io risalga a uno di quei giorni, per poter dire d’aver sentito altre volte un allargamento di polmoni così delizioso, una soddisfazione così piena, una così matta voglia di scender le scale a cinque gradini per volta, come quella che m’hai fatto provar tu, con quelle quattordici benedette parole, o governante dell’anima mia.
VI.
E dalle nove e mezzo della mattina alle nove e mezzo della sera fui re di Francia. Ah, Vittor Hugo superbo, Vittor Hugo comunardo, Vittor Hugo energumeno, Vittor Hugo matto; che baie! Tutti questi Vittor Hugo della critica o della calunnia, col berretto frigio o colle corna dell’orgoglio satanico, erano spariti dalla mia mente.
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