La governante mi domandò il nome per andare ad annunziarmi. Il suono del mio nome pronunziato da me, e ripetuto da lei, in quella stanza, mi svegliò, come se qualcuno m’avesse chiamato; la mia mente si rischiarò e un torrente di vita mi affluì al cuore. La donna aperse una porta e disparve. Per la porta semiaperta uscì un suono confuso di voci allegre e forti, da cui capii che si stava terminando di cenare. In mezzo a quel vocio afferrai due parole: — La philosophie indienne.... — Ebbi appena il tempo di pensare: Oh numi! Che cosa dirò se mi attaccano sulla filosofia indiana? La porta si richiuse. Mi parve che seguisse un silenzio profondo. La governante faceva l’imbasciata. I minuti secondi mi sembravano quarti d’ora. Quel silenzio mi pareva tremendo. Finalmente la donna ricomparve, mi accennò di seguirla, guardandomi curiosamente, come se il mio viso avesse qualche cosa di strano; mi fece passare per un corridoio, spinse leggermente il battente d’una porta e mi disse sottovoce: — Entrate, signore. Il signor Vittor Hugo è là. —
Stetti un momento immobile. Mi sentivo.... poco bene. Se la governante m’avesse guardato in viso, m’avrebbe offerto un bicchiere d’acqua.
— Animo! — dissi poi a me stesso; sollevai una tenda, feci un passo innanzi e mi trovai in faccia a Vittor Hugo.
Era in piedi, solo, immobile.
Che cosa gli dissi? A diciott’anni, in quelle occasioni, si versano delle lagrime. Il pianto è la grande e dolce eloquenza della prima giovinezza. Ma a trent’anni non si piange più. A trent’anni si domina la commozione senza soffocarla, e si parla.
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Vittor Hugo Vittor Hugo
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