Poi alcuni si congedarono e Vittor Hugo fece entrar gli altri nel salotto accanto, stringendo la mano a tutti, mentre gli passavano davanti.
Questo secondo salotto era pieno di gente, la maggior parte amici di casa. Era un salotto di grandezza media, piuttosto basso, tappezzato di rosso, mobiliato signorilmente, senza pompa. Da una parte c’eran quattro sofà disposti a semicircolo, un po’ discosti l’un dall’altro, intorno a un camminetto di marmo; sul camminetto, un antico specchio; sulle pareti, nessun quadro. La casa, tutto considerato, non mi parve una casa da poeta milionario. C’era però nella decorazione una predominanza di rosso cupo e di rosso sanguigno, che armonizzava col genio del padrone. La gente sparsa per la sala formava un quadro assai curioso. Il primo che mi diede nell’occhio, per la macchia stranissima che formava in quel quadro, – come certe parole bizzarre in una bella pagina dell’Hugo, – fu un mulatto di forme colossali, in giubba e cravatta bianca, che sfogliava un album. E gli domando scusa, ma voglio dir la verità, ed è che al primo vederlo pensai a quell’Homére-Hogu, nègre, che fa uno spicco così pittoresco nell’elenco nominativo della banda di Patron-Minette, nei Miserabili. Mi fu detto poi ch’era un collaboratore della Petite Presse, pieno d’ingegno, e molto stimato. In un angolo c’era un gruppo di giovani che discorrevano fitto, ridendo elegantemente: belle fronti, occhi vivi, capigliature poetiche, atteggiamenti d’attori corretti; da cui argomentai che fossero dei così detti Parnassiens, poeti dell’arte per l’arte, o meglio del verso pel verso, che hanno per capo il De Lisle; e formano un drappello di paggi nella corte di Vittor Hugo.
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