— Non vidi mai uno scrittore celebre circondato da uno stuolo d’ammiratori, che somigliasse, come quello, al corteo d’un monarca. È mio dovere d’aggiungere, però, che non vidi mai sul suo viso nemmeno un lampo, che esprimesse compiacenza vanitosa dell’ammirazione che lo circondava. È vero, d’altra parte, che c’è abituato da cinquant’anni.
Un grande lume rischiarava in pieno il suo viso, e io non potevo saziarmi di guardarlo, tanto mi pareva singolare.
Il viso, di Vittor Hugo, infatti, per me, è ancora un problema. È un viso che ha due fisonomie. Quando è serio, è serissimo, quasi cupo; pare un viso che non abbia mai riso, non solo, ma che non possa ridere; e i suoi occhi guardano la gente con un’espressione che mette inquietudine. Gli si direbbe:— Hugo, fatemi la grazia di guardare da un’altra parte. — Sono gli occhi d’un giudice glaciale o d’un duellante più forte di voi, che voglia affascinarvi collo sguardo. In quei momenti mettetegli, col pensiero, un turbante bianco sul capo: è un vecchio sceicco; mettetegli un casco: è un vecchio soldato; mettetegli una corona: è un vecchio re vendicativo e inesorabile. Ha non so che dell’austerità d’un sacerdote e della tetraggine d’un mago. Ha una faccia leonina. Quando apre la bocca, par che ne debba uscire un ruggito, e quando alza il pugno robusto, par che non debba abbassarlo che per stritolar qualche cosa. In quei momenti sul suo viso si legge la storia di tutte le sue lotte e di tutti i suoi dolori, la tenacia ferrea della sua natura, le simpatie tetre della sua immaginazione, i suoi fornati, i suoi feretri, i suoi spettri, le sue ire, i suoi odii; tutta l’ombre, come egli direbbe, tutto il côte noir delle opere sue.
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Vittor Hugo
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