Ma a un tratto, come m’accadde di vedere quella sera, mentre un tale gli raccontava un aneddoto comico d’un fiaccheraio di Parigi, egli dà in una risata così fresca e così allegra, mostrando tutti i suoi denti uniti, piccoli e bianchi; e in quel riso i suoi occhi e la sua bocca pigliano un’espressione così giovanile e così ingenua, che non si riconosce più l’uomo di prima, e si riman là stupiti, come se gli fosse caduta dal viso una maschera, e si vedesse per la prima volta il vero Hugo. E in quei momenti vedete, come per uno spiraglio, dietro di lui, Deruchette, Guillormand, Mademoiselle Lise, Don Cesare di Bazan, Gavroche, i suoi angeli, il suo ciel bleu, e tutto il suo mondo luminoso e soave. Ma non sono che lampi, rari sul suo viso come nei suoi libri; dopo di che egli riprende il suo aspetto pensieroso e tetro, come se meditasse la catastrofe d’uno dei suoi drammi sanguinosi. E più si guarda, meno si può credere che sia quello stesso Hugo di mezzo secolo fa, magro, biondo, gentile, al quale gli editori e i direttori di teatro che andavano a cercare a casa l’autore dell’Ernani, dicevano: — Fateci il favore di chiamar vostro padre.
Mentre Vittor Hugo parlava a bassa voce con un suo vicino, io attaccai discorso con un signore accanto a me, un uomo sulla cinquantina, d’una bella fisonomia d’artista; il quale, dopo poche parole, mi disse ch’era amico di Vittor Hugo, e che qualche volta scriveva delle lettere in nome suo.
Fra le altre cose gli parlai dell’emozione che avevo provata la mattina salendo le scale.
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